La riva sinistra del Tevere.
Nei primi anni del I millennio a.C. il fiume Tevere attraversava una pianura acquitrinosa e malarica per poi arrivare nel Tirreno; all’interno della pianura si innalzavano dei colli con pendici molto scoscese. Qui si erano stabiliti inizialmente gli Italici (di origine indoeuropea) che poi si erano differenziati fra loro formando vari gruppi, tra i quali quello dei Latini. Questi, amalgamandosi gradualmente con le genti indigene, avevano castruito i loro villaggi sulle alture poste fra la riva sinistra del Tevere e i colli albani, sia per sfuggire dalla malaria delle paludi, sia per difendersi meglio dalle razzie delle tribù vicine dei Sabini, Equi, Volsci ed Ernici.
Gli usi, i costumi e i valori dei Latini erano molto simili alle popolazioni nordiche da cui discendevano: forza bruta, guerra di rapina, duelli mortali per il comando, culto della virilità, patriarcato assoluto. Adoravano alcune divinità naturali, alle quali innalzanvano altari e sacrificavano animali, ma soprattutto veneravano Zeus, la massima divinità degli Arii, dei primi Achei e dei Dori, che chiamavano Juppiter. Il re degli dèi era padrone dei cieli, signoreggiava i fenomeni atmosferici come la pioggia e il fulmine, vigilava sulle vicende umane e manifestava la sua ira per mezzo del tuono. Zeus, però, non si occupava di politica o di guerre, preferendo lasciare queste incombenze ad altre divinità minori, i cosiddetti dèi militari.
Alle feste e ai riti sacri partecipavano gli abitanti di più villaggi, che nel tempo si riunirono dando vita a leghe religiose. Fra queste leghe particolare importanza assunse quella posta sotto la direzione di Albalonga, un villaggio situato presso l’attuale Castelgandolfo. Albalonga divenne infatti il centro di una federazione, istituita inizialmente a scopi religiosi, a cui si aggiunsero in seguito anche scopi difensivi, per cui ebbe presto in seno ai Latini un notevole peso militare e politico.
Nel frattempo sul Platino, dove si sarebbe poi sviluppata la città di Roma, c’era solo un agglomerato di misere capanne di legno e fango, con tetti di paglia.
La leggendaria fondazione di Roma.
Secondo lo storico romano Tito Livio, l’eroe omerico Enea, scampato alla distruzione di Troia, sbarcò sulle coste laziali con alcuni compagni e il figlio Julo. Questi fondò Albalonga e dopo otto generazioni sul trono della città vi era ancora un suo discendente, il buon Numitore. Il fratello però, il perfido Amulio, lo cacciò e gli uccise tutti i figli tranne Rea Silvia, che ebbe dal dio Marte due gemelli. Amulio allora, per non avere legittimi concorrenti al trono, li fece gettare nel Tevere; ma i due bambini si salvarono miracolosamente; allattati prima da una lupa, furono raccolti poi dal pastore Faustolo, che diede loro il nome di Romolo e Remo.
Divenuti grandi, i due gemelli uccisero Amulio e restituirono il trono al nonno Numitore. Quindi decisero di fondare una nuova città. Per sapere chi dovesse darle il nome si affidarono al volo degli uccelli, che fu favorevole a Romolo. Mentre questi tracciava con l’arartro il solco che ne delimitava i confini, Remo lo saltò in segno di sfida, per cui Romolo lo Uccise gridando: “Muoia così chiunque altro osi varcare le mura di Roma”.
Era, sempre secondo la leggenda, il 21 aprile del 753 a.C., l’anno in cui ha inizio il calendario romano e il perioso monarchico.
Una poesia romana di Giorgio Roberti, intitolata XXI Aprile, recita così l’evento:
Un aratro, du’ bovi maremmani,
quattro fossi e so’ fatti li confini.
Quelli che stanno drento so’ romani,
quelli che stanno fôra so’ burini.A ‘sto punto, li giovani sovrani
incominceno a fa’ li litichini
(una è più duro de li monticiani,
l’antro somija a li trasteverini)-Mbè, come la chiamamo? – je mettemo
er nome mio – fa Romolo – è più cicia
si porta quello mio – risponne Remo.Roma o Rema? Sbrilluccica er cortello…
Roma è nata co’ tanto de’ camicia
però se perde subbito…un gemello.
Il ratto delle Sabine.
Roma rimaneva una città con una scarsa popolazione, gli abitanti erano formati da pochi uomini che si erano rifugiati qui perchè esiliati dalle loro città a cui Romolo aveva offerto rifugio introducendo così per primo l’istituto dell’asilo. Per popolare la città Romolo si servì di un’astuzia, invitò la popolazione vicina dei Sabini a dei giochi pubblici, poi, durante la manifestazione, ad un segnale prefissato i Romani rapirono le giovani sabine e le costrinsero a convivere con loro. Il ratto delle Sabine provocò l’ira di padri, fratelli e mariti, pronti a dare guerra a Roma pur di riavere le proprie donne. La guerra fu scongiurata dalle stesse donne rapite, infatti, racconta Livio: “Con le chiome sciolte e le vesti scomposte, vinta in loro per tanta sciagura la femminile timidezza, osarono lanciarsi tra il volare dei dardi, da un lato supplicando i padri, dall’altro i mariti, perchè suoceri e generi non si bagnassero di empio sangue. Ciò commuove soldati e comandanti; subitamente tuto è silenzio e quiete; poi i duci s’avanzano a stringere il patto“.
Oltre a siglare un patto di non belligeranza, Sabini e Romani, al fine di scongiurare futuri dissensi e altre guerre, un re di origine sabina, Tito Tazio, abrebbe regnato con Romolo per cinque anni. Alla morte del re sabino, ucciso in un tumulto, Romolo restò unico sovrano, finchè non scomparve durante un temporale. I Romani credettero che fosse salito in cielo e lo venerarono col nome di Quirino.
Le origini storiche.
La leggenda sulla fondazione di Roma fu ideata quando Roma era già potente e sentiva l’esigenza di un fondatore semidivino che riscattasse le sue umili origini. Per questo dunque fu attribuita un’origine divina ai padri della città: Enea era figlio di Venere e suo figlio Ascanio, detto anche Iulo, diede il nome alla gente Iulia, alla quale appartennero Cesare e Augusto.
In effetti non ci fu un vero atto di fondazione, perchè Roma si sviluppò sul Palatino come aggregato di capanne di pastori-agricoltori, con boschi, orti, recinti per il bestiame, campi coltivati in comune. Il primo nucleo urbano si formò probabilmente fin dal II millennio nel luogo dove in seguito sarebbe sorto il Foro Boario, cioè l’area destinata al commercio del bestiame.
Questo primo nucleo con il tempo si ingrandì grazie alla sua posizione strategica: dominava l’ansa del Tevere nel punto in cui l’Isola Tiberina rendeva agevole il guado del fiume alle correnti commerciali tra il nord e il sud dell’Italia, collegando Etruschi e Campani. Sempre in quella zona transumavano le greggi delle pianure tirreniche verso i pascoli estivi dell’interno e vi passava la pista del sale (la futura via Sarlaria) che dalle spiagge di Ostia veniva portato alle popolazioni appenniniche. Presto, quindi, vi fiorì un ricco mercato di prodotti agricoli, di bestiame e di sale che attirò sempre più le popolazione dell’Italia centrale.
La nascita di Roma.
Durante l’VIII e il VII secolo il villaggio del Palatino si fuse, anche per difendersi soprattutto dagli Etruschi che spadroneggiavano al di là del Tevere, con i villaggi vicini; l‘Esquilino, il Celio, il Viminale, il Quirinale, il Capitolino, mentre l’Aventino dovrà attendere il IV secolo per essere invluso entro la cerchia delle mura. Tutti questi villaggi si riunirono in una lega religiosa il cui ricordo rimase nella festa del settimonzio, un rito celebrato ancora in età storica con sacrigici alle divinità sulle altrure dei colli meridionali (da saeptimontes = monti chiusi da staccionate o da argini di terriccio).
Successivamente questi villaggi si riunirono anche militarmente, soprattutto dopo che sul Quirinale si erano insediati i Sabini scesi dall’entroterra appenninico per garantirsi il guado del Tevere e la possibilità di accesso alle saline.
Attraverso questo processo di amalgama si formò Roma, che diventò pian piano una vera e propria città, munita di un valido sistema difensivo, sotto il comando di un re, affiancato dagli esponenti delle più importanti famiglie. la fisionomia della città allora si trasformò: vennero tracciate strade, costruite case e quartieri, innalzati templi ed edifici pubblici, ampliate le mura.
Si sviluppò, sempre in questo periodo, l’artigianato, si incrementarono i commerci, furono accolti gli stimoli della più progredita civiltà etrusca.
Leggenda e realtà storica sulle origini di Roma.
Le origini di Roma sono contenute in varie leggende e indicano una data di nascita della città (21 Aprile 753 a.C.) e un fondatore (Romolo).
Gli scavi archeologici, a volte, smentiscono la leggenda, a volte la congermano: non è tutto prodotto dall’immaginazione e anche la leggenda può avere una sua giustificazione storica.
Dietro al mito di Enea, che per i Romani costituiva l’attestato, la garanzia della discendenza divina, ad es., si ha un reale culto di questo eroe, archeologicamente documentato sia tra gli Etruschi, sia nel Lazio almeno fino al VI sec. a.C. e si possono intravedere, per quanto vagamente, i rapporti commerciali intercorsi tra l’Italia e l’area egea durante l’età del bronzo.
Nella ricostruzione dei primi secoli storia e leggenda tendono a confondersi, poichè del periodo della Roma dei re manca una documentazione scritta; la storia delle origini fu composta in età repubblicana e, quindi, sottoposta ad una serie di elaborazioni dovute a motivi e influssi culturali diversi.
Un ruolo fondamentale nella formazione della storiografia romana giocò la cultura greca, tanto che in greco scrisse il primo storico di Roma, Q. Fabio Pittore, vissuto al tempo della seconda guerra punica. Sotto l’influenza greca si mirò a collegare la storia di Roma all’antica storica greca, attraverso legami leggendari; così si spiegano i richiami alla mitica guerra di Troia, o tramite l’eroe troiano Enea, che sarebbe approdato nel Lazio, o tramite l’eroe greco Ulisse, anch’egli famoso per le sue peregrinazioni in occidente.
La storia della lupa.
Da “Le storie” di Tito Livio:
“
Ma era destinato dai fati, io credo, che dovesse sorgere sì grande città e che avesse così inizio l’impero più potente dopo quello degli dèi. La vestale [Rea Silvia], essendo stata violentata e avendo partorito due gemelli, sia che ne fosse realmente convinta, sia perchè meno disonorevole apparisse una colpa di cui era responsabile un dio, attribuisce a Marte la paternità della sua illeggittima prole. Ma nè gli dèi né gli uomini sottraggono lei e la sua prole alla crudeltàdel re, il quale fa imprigionare la sacerdotessa e ordina ch i bimbi siano gettati nella corrente del fiume. Per un caso provvidenziale il Tevere era straripato e, dilagando in placidi stagni, non permetteva di accostarsi al letto normale del fiume, mentre dava ai portatori la speranza che i bimbi potessero ugualmente annegare anche nell’acqua inerte. Così, convinti di aver eseguito l’ordine del re, espongono i fanciulli nello stagno più vicino, dove oggi si trova il fico Ruminale, un tempo detto Romulare. Persiste ancora la tradizione che, quando le acque poco profonde lasciarono in secco l’ondeggiante canestro in cui i bimbi erano stati esposti, una lupa assetata, scesa dai monti circostanti, fu attratta dai loro vagiti e, abbassatasi, offrì le sue mammelle ai piccini, con tanta mansuetudine che il mandriano del re (dicono si chiamasse Faustolo) la trovò che lambiva i bimbi con la lingua. Costui li portò nelle sue stalle e li diede da allevare alla moglie Larenzia. Alcuni pensano che codesta Larenzia, per aver spesso prostituito il suo corpo, tra i pastori fosse chiamata “lupa“: da ciò sarebbe sorta questa straordinaria leggenda.”